Juanne Antoni Cossu. Chentu Poesias

Duas peràulas…..

[…] ………Su poeta est s’anima de su popolu; issu nd’intendet totu sos palpitos; issu at su dovere de cantare su popolu sou cun d·una forma sa pius gentile e delicada. Lu devet cantare in totu sas intimidades de sa vida, in su trabagliu de sos campos, in sas oficinas, in sos costumenes, in sa religione, in s’onestade, in su cuntentu e in su dolore. Su poeta at puru su dovere de castigare su malu costumene, s’impoticu, su fanfarrone, su faulalzu, s’impostore, su mandrone, ca sun totu ispinas chi avelenan s’onestu vivere de sa sotziedade umana. Devet cantare s’immensu tema de mama natura in totu sas suas divinas manifestatziones. Ah si de abberu bi pensaimis, cantas bellas poesias tiat bantare custa nostra cara “Poetica Sardigna”!……. […

Goi at iscritu Juanne Antoni Cossu in su 1947 in “Sardigna poetica” e nos paret chi fit difitzile a nde agatare mezus de peràulas po nàrrere poite nos amus leadu s’impiciu de chircare sas poesias suas fatu de giornales e libereddos in sas bibliotecas: non po fàghere una “edizione critica”, ma po ammentare e fàghere a connòschere unu tiesinu chi, cun su ch’at iscritu tando, at ancora ite nàrrere a dies de oe, ca su poeta cantat in d·unu tempus e mamentu pretzisu, sos àteros poden aiscultare e imparare cando cheren.

“Chentu poesias” l’amus intituladu custu liberu: J. A. Cossu nd’at iscritu nessi a tres bortas si non pius; unu tantu devian èssere e nde amus seberadu chentu chi tratan allegas e chistiones medas po dare un’idea de totu su chi l’at interessadu e las amus aunidas a tema: sas chi faeddan de sa vida sua, de “mama natura”, de Tiesi, e gai andende. Legende guasi totu, penso, sas cantones de J. A. Cossu, amus bidu chi si interessaiat de cosas medas ca fit un’òmine apassionadu de sa vida e chi fit sabiu puru ca de totu, bonu e malu, chircaiat sa raighina e at a esser forsi pro cussu chi mancari cun pagas iscolas, aiat cumpresu  meda de sa vida.

Tzertas poesias, massimu cussas chi aiat pubblicadu in “Serenadas a Nina” b’at zente, e no in bidda ebbia, chi las ischit a mente, finas ca las cantaian a chiterra in sos  palcos de tota sa Sardigna, àteras sun pagu connotas, comente cussas chi Issu at intituladu “interpretazioni dialettali”; medas las aiat pubblicadas in giornales e dae unu a s’àteru si poden agatare cambas divescias in sa matessi poesia.

In sa pagina, suta de paritzas poesias b’amus postu carchi nota: bi sun sas dedicas chi at fatu su poeta e, po tzertas peràulas in patadesu o in otieresu, bi sun cussas pius connotas in Tiesi; po nde cumprendere àteras, antigas e bellas meda ca mustran tota sa richesa de su faeddu nostru, bi sun (comente “nota di redazione”) sas chi impitamus de pius como.

Po las iscrìere amus sighidu cussas regulas cossizadas dae su Premiu de poesia de Otiéri e ringratziamus Prof. Rubatu po sa gentilesa e s’agiudu chi nos at dadu.

Juanna Chesseddu

Ammentendemi a Babbu

Egregi Signori,

prima di tutto vi faccio i miei complimenti per quanto fate per non perdere il patrimonio sardo e mi auguro che il volumetto antologico su mio padre sia il primo di una lunga serie.

Rispondo con piacere al vostro invito di scrivere qualcosa su mio padre. Il ricordo più vivo nella mia mente è quello della sua figura curva sul tavolino dove passava le ore della notte a scrivere o leggere.

Le parole che rammento come un testamento sono quelle che ripeteva a noi figli quando parlavamo di ricchezza: "voi siete già ricchi perché avete un cervello sano, non vi rimane che leggere più che potete e arricchirete la mente e lo spirito. Queste sono le cose che più contano".

Questo in breve era mio padre, un acuto osservatore di ciò che di bello e di brutto offre la vita: le sue poesie parlano per lui.

Ancora oggi, leggendo il suo libro "Fiores siccos e sazos fioridos", rivedo le persone e le cose alle quali si riferiva.

Attendo vostre notizie in merito alla presentazione del libro, sperando vivamente di potervi partecipare.

Angela Cossu

L’apprendistato di un poeta

A prima vista si potrebbe pensare che Giovanni Antonio Cossu, nel lasciare in tarda età uno Zibaldone ai suoi figli, volesse trasmettere loro un raccolta di princìpi di vita, di norme di comportamento; scrive infatti nella dedica: «Fatene buon uso, nella mia umiltà troverete qualche sprazzo di luce».

Ma poi, quando ci si addentra nella lettura del brogliaccio – una settantina di cartelle scritte a macchina –, ci si rende conto che il suo scopo era un altro, e cioè raccontare la storia del suo incontro con la poesia, e poi della sua crescita in quella disciplina, sino a raggiungere una considerevole notorietà – per lo meno nell’isola –, ma con l’attenzione sempre puntata alle letture, agli incontri, soprattutto alle corrispondenze, in versi e in prosa, che lo avevano aiutato a crescere e migliorare. Il tutto accompagnato da un grande numero di versi: era da questi che doveva evidentemente venire quello «sprazzo di luce» di cui parlava, e tutt’al più da qualche notizia autobiografica che inseriva qua e là, dai principi che raccontava di essersi dato nei rapporti con gli altri poeti, i critici, il pubblico.

Le prime esperienze – racconta – furono quelle tipiche del tempo: nell’ovile e, nel tempo libero, nei luoghi d’incontro del paese. Era rimasto orfano di padre all’età di otto anni (siamo nel 1905), e i fratelli maggiori, senza perdere troppo tempo, lo mandarono come servo pastore presso un allevatore di Ozieri: una vera fortuna, perché allora la cittadina era “terra di poesia”: «Nei giorni di festa non si sentivano che improvvisatori dappertutto, di notte deliziose serenate… Erano i primi tempi delle gare poetiche, dei Cubeddu, dei Pirastru, Morittu e altri minori, si viveva di lavoro e di poesia». Il suo padrone, per di più, era Francesco Morittu, figlio del più celebre estemporaneo Giuseppe, e a sua volta poeta, anche “a tavolino”, che sarebbe arrivato a concorrere il premio “Ozieri” (fondato da Tonino Ledda nel 1956) e a far parte della giuria. Da lui Cossu ebbe il “battesimo poetico” e iniziò ben presto a darsi i primi orientamenti, ad esempio la predilezione per la poesia scritta: «Non sono mai stato un buon improvvisatore ma bensì un ammiratore degli improvvisatori».

Nel concepire una sua prima poesia gli venne spontaneo riflettere sull’esperienza più dolorosa della sua vita, s’orfania:

Solos, tristos, senza ghia

semus orfanos restados,

da sa morte abbandonados

in lotta, in pena e traschia…

Avviato al lavoro così presto, aveva frequentato appena la prima elementare e parte della seconda, e fu ancora una volta la poesia a spingerlo a migliorarsi: «Ogni volta che andavo a Ozieri facevo provvista di opuscoli dialettali… S’anzone, S’abe, Sos chi feminas amades del Pesurzi, quelle del “Padre Lucca” Cubeddu, del Mossa, del Murenu, del Mele e di molti altri. Così, appresso al gregge, a poco a poco imparai a leggere e a scrivere il dialetto sardo logudorese e a farmi una cognizione di poesia popolare».

In seguito fece altri incontri fortunati, favorito dalla diffusione che la pratica e la passione della poesia hanno sempre avuto tra i sardi. Inviato al fronte della Grande Guerra ebbe modo di frequentare Giovannino Fadda, l’improvvisatore di Fordongianus; e, una volta sposato e stabilitosi a Sassari, iniziò a conoscere i poeti del luogo, che gli offrivano modelli nuovi sia per lingua che per contenuti e motivi ispiratori: in particolare masthru Bainzu Delogu, noto “Lu Tramazzaggiu”, spirito caustico e indipendente, ottimo interprete della cionfra (“scherzo”, “beffa”, “satira”) cittadina.

Cossu lo ammirava e lo accettava come maestro, pronto ad ascoltare i suoi giudizi e consigli: «Se diceva ‘Questa non vale’ di certo non valeva; se invece il componimento gli piaceva gli si empivano gli occhi di lacrime e mi abbracciava dicendomi: ‘Brabu, cussì debi scribì…”».

Ma intanto non si fermava a questi incontri, aveva allargato i suoi interessi ed era in contatto con la rivista “Sardegna”, che usciva a Cagliari, diretta da Sebastiano Pirodda e animata da Giuseppe Calvia “Lachesinu” ed Efisio Soletta, entrambi di Mores; ed anche con la “Rivista italiana di Poesia e Letteratura dialettale popolare” che usciva nella penisola: col suo direttore, Filippo Fichera, sarebbe stato in corrispondenza per lunghissimi anni.

Da tutti questi amici lontani riceveva segni di apprezzamento. Racconta tra l’altro che Calvia, nel pubblicare un sonetto che gli aveva dedicato, lo definì “poeta principe”, e questo fu sufficiente per scatenare la creatività polemica di masthru Delogu:

Da candu sei figlioru di re

hai auddu una fozza di lioni,

inveci prima coment’un’agnoni

isthazìi dì e notti infatt’a me.

Dagli amici e dai corrispondenti arrivavano anche critiche e suggerimenti; riporta ad esempio una lettera nella quale Soletta gli dava una minuziosa lezione sulla misura metrica di alcune sillabe; di fronte a tanta precisione egli rivendicava una maggiore fedeltà alla tradizione orale: «Io di certe regole non me ne sono mai inteso, faccio a braccio… il verso lo canto e se mi va bene il suono lo lascio come è nato».

Ma a parte qualche “blocco” che gli veniva dalla cultura di origine, e non riusciva a rimuovere, era sempre pronto ad ascoltare tutti i suggerimenti, specie se venivano da qualcuno dei tanti personaggi di spicco che ebbe la fortuna di conoscere e la costanza di frequentare. Ad esempio il notissimo Salvator Ruju: «Tante volte gli ho sottoposto dei quaderni di miei componimenti, con preghiera di dargli un primo sguardo e di segnare con un ‘no’ i componimenti che a parer suo non andavano, e con un ‘sì’ quelli che trovava di suo gusto. L’umiltà è sempre stata la mia bandiera, e non me ne pento». Un insegnamento che travalica il campo della poesia e si allarga – come lasciava intendere la dedica – ai princìpi più generali del vivere.

Lo Zibaldone continua così fino alla chiusura (datata 5 marzo 1965 a Oristano, dove era andato a vivere con un figlio), riportando un grande numero di brani e andando avanti e indietro per decenni e decenni di incontri e polemiche, riconoscimenti e amarezze, e ancora molteplici corrispondenze. Egli le coltivava aderendo a una tradizione molto diffusa tra i poeti isolani, ma anche convinto di rimediare ad una carenza di circolazione culturale («In mancanza di riviste, il poeta sardo si è sempre ingegnato a tener viva la fiaccola della poesia attraverso la corrispondenza»), e allo stesso tempo soddisfare una sua inclinazione personale: «Ho sempre provato un godimento spirituale quando chi mi corrispondeva aveva la mia stessa passione nel parlare delle cose dell’andare della vita; era veramente una confessione dei sentimenti». 

Così, mentre da Calvia e da Soletta otteneva la prefazione a due delle sue raccolte di versi, era pronto ad ascoltare i suggerimenti di Fichera, che dal continente lo incitava a tradurre Leopardi, a descrivere in una poesia il bacio, o ancora a dedicarsi alle composizioni brevi e brevissime: «Volli divertirmi e scrissi Sos Nanittos, sonetti con versi di tre sillabe… Certo, quando si ha l’abilità di farle bene, le composizioni sono le più belle, se poeticamente ben concise…».

Grazie al carattere aperto e cordiale, Cossu si teneva così lontano dai pericoli dell’isolamento, partecipava ai concorsi e otteneva riconoscimenti, leggeva le riviste, pubblicava piccole raccolte, seguiva le polemiche, in particolare quella interminabile su rima/non rima. Ebbe contatti anche con lo scrittore e poeta Pietro Casu, con l’algherese Rafael Sari, con Angelo Dettori, animatore della rivista “S’Ischiglia”; e, in continente, col celeberrimo autore napoletano di canzoni E. A. Mario. A Sassari frequentava di persona l’ambiente dei poeti e degli appassionati, e partecipava a serate in campagna complete di intrattenimento gastronomico: «Ci preparavano al merenda a base di ziminu, zarrettu, coccoidu e ciogga grossa… il vino era rosso sangue… gli amici era bello vederli seduti tutti a torno dei poeti e cantori, sotto l’azzurro manto costellato di stelle…».

In questo modo, grazie ai consigli e suggerimenti di tanti compagni, rimediava alla mancanza di un’istruzione regolare, della quale alle volte sentiva il peso: «Non sono mai riuscito a imparare bene l’ortografia, punteggiatura ecc.; certe regole, se non si imparano a scuola, da solo non si imparano mai bene».

Per qualcuno di questi suoi limiti, come abbiamo visto, era ormai rassegnato a tenerselo vita natural durante, ma per tutto il resto il suo atteggiamento era di ascolto, di ottimistica apertura, quasi che la vita potesse offrirgli una possibilità ininterrotta di crescere e migliorare. Anche questa, tra le tante lezioni che ha lasciato in questa autobiografia intellettuale, si può ben estendere dal mondo della poesia a quello più ampio della vita.

Salvatore Tola

JuanneAntoni Cossu e S’Ischìglia

Ho accettato di buon grado l’invito rivoltomi dagli amici della Pro Loco di Thiesi a voler ricordare la figura poetica di Giovanni Antonio Cossu (1897-1972) attraverso le sua cospicua collaborazione alla Rivista di lingua e letteratura sarda “S’Ischiglia”, dall’anno della sua fondazione (1949) sino al 1957, in cui terminò le pubblicazioni, e questo per due ordini di motivi: il primo  perché, essendo io stato il Direttore per oltre dieci  anni delle seconda Ischiglia (1980-1995),  ho sentito l’obbligo morale di accogliere la proposta; il secondo perché, conoscendo  il personaggio e l’artista, ho da sempre riconosciuto in questa “umile” voce thiesina uno degli antesignani di quella che nel tempo sarebbe diventata la “nuova” poesia sarda, ossia una poesia non più chiusa, o meglio sclerotizzata e asfittica, entro “sas tancas serradas a muru” della propria specificità, ma vogliosa  e capace di aprire le proprie stanze al futuro del mondo e dell’umanità, ad universalizzare cioè il discorso poetico.

Studiò quanto basta per apprendere appena a leggere e a scrivere, passò da ancora ragazzo alla dura vita dell’ovile e nella solitudine dei pascoli, a contatto col mondo della natura, scoprì da giovanissimo il fascino della poesia, soprattutto di quella improvvisata nelle gare poetiche delle sagre di paese.

Avido lettore dei tanti opuscoletti “in limba” che si pubblicavano agli inizi del secolo scorso nei nostri paesi, cominciò così ad irrobustire la sua cognizione di poesia popolare, emulandone le forme metriche e, almeno all’inizio, condividendone le principali tematiche.

Non essendo però dotato del senso dell’improvvisazione poetica preferì subito il tavolino al palco, scrivendo sin da giovanissimo quanto l’estro e l’immaginazione gli suggerivano.

Combattente della I^ Guerra Mondiale, nella quale rimase anche ferito, rientrato in Sardegna si trasferì a Sassari dove trovò lavoro presso una piccola industria del legno, in cui rimase sino all’età della pensione.

Non smise mai però di coltivare la sua passione poetica, anzi scrisse in maniera frenetica, dando vita, uno dopo l’altro, ad una serie di opuscoletti, ora dal tono intimistico e malinconico, “Amore e dolore” (1927), ora con immagini nuove ed originali di una Sardegna non più piagnucolona e disperata, ma volitiva e piena di fiducia nel proprio futuro di riscatto, “Fiores siccos e sazos fioridos” (1930), altrove con toni di menestrello sensibile e innamorato della propria donna e della vita familiare, “Cartolinas a Nina” (1931) e “Cantonarzu amorosu” (1937), e ancora con accenti di lirica introspezione, “Sos càntigos de s’ànima”. Seppe intessere una serie considerevole di amichevoli rapporti con personaggi rilevanti del mondo  poetico regionale e nazionale, da Francesco Morittu, figlio del famoso improvvisatore di Ozieri Giuseppe, al poeta estemporaneo di Fordongianus Giovannino Fadda, a masthru Bainzu Delogu di Sassari, noto compositore di “gobbule” cionfraiole, a Giuseppe Calvia “lachesinu”, poeta anch’egli,  e Filippo Soletta di Mores, a Filippo Fichera, direttore della “Rivista di poesia e Letteratura dialettale popolare”, al notissimo Salvator Ruju, uno dei massimi poeti sassaresi, ed ancora con lo scrittore e poeta di Berchidda Pietro Casu, con l’algherese Rafael Sari, e, non ultimo, con Anzeleddu Dettori, direttore di S’Ischiglia. Pare abbia intrattenuto anche rapporti epistolari (di cui però niente si conserva) anche col noto autore di canzoni napoletane E. A. Mario.

Collaborò con le più note riviste del tempo: “la Sardegna scolatica”, “Sardegna”, “Sardegna poetica”, “Rinascita Sarda”, “S’Ischiglia” ed ai quotidiani sardi “La Nuova Sardegna “ e “L’Isola”.

Da tutti questi contatti seppe “suggere”, in umiltà assoluta, importanti lezioni di vita e di poesia, migliorando sensibilmente la sua tecnica compositiva e allargando considerevolmente il concetto di espressività poetica, al punto di meritare lusinghieri riconoscimenti in diversi Concorsi poetici regionali e nazionali.

Riprendendo il motivo principale di questo mio “ricordo” di Giovanni Antonio Cossu, ossia la sua fitta collaborazione con la rivista “S’Ischiglia”, mi sia concesso spiegare, seppur brevemente cosa è stata e che cosa ha rappresentato S’Ischiglia nel panorama culturale, sociale e politico della Sardegna.

Essa nasce a Cagliari nel gennaio del 1949, grazie all’intuito, alla generosità e all’intelligenza di un manipolo di uomini, mai assurti alla notorietà di personaggi pubblici, guidati dal prof. Michele Contu, che avevano posto la loro Redazione a Cagliari, in Via Goceano 6, e che sempre a Cagliari, stamparono i primi opuscoli nella Tipografia Operai di  G. D’Agostino.

Un drappello di coraggiosi che ebbero l’ardire di sfidare le consolidate spietate leggi di sopravvivenza delle tante riviste sorte in Terra nostra nell’Otto-Novecento, nate tra sogni, speranze e utopie e decedute subito “post partum” tra le velenose intestine ostilità degli pseudo-intellettuali sardi e l’indifferenza, spesso disarmante, della gente.

S’Ischiglia vede la luce, dunque, in un particolare momento storico, allorquando, cessato il

secondo conflitto mondiale che aveva arrossato di sangue ichnusio i freddi altopiani del Carso, e spazzata via la tirannide fascista che finì col segnare di fatto “l’ingresso della Sardegna nel sistema nazionale”, si volgeva lo sguardo e la mente verso quell’alba “radiosa” che quasi tutti ritenevano ampiamente meritata e conquistata sulle trincee nemiche, alba che avrebbe dovuto segnare, una volta per tutte, la rinascita ed il riscatto socio-economico-culturale dell’Isola.

Tempi -quelli- di profonde revisioni ideologiche, di ripensamenti, di riproposizioni regionalistiche, di aspirazioni autonomistiche.

Negli anni avvenire, tra il ’50 ed il ’60, poveri noi, tra ansie e delusioni, si andrà formando invece quella infelice dicotomia di pensiero e d’azione, che vedrà i Sardi dividersi finanche sul ruolo della “limba”, vista da molti con la semplicistica equazione: limba sarda = arretratezza, ignoranza,, stasi / lingua italiana = progresso, cultura, marcia in avanti!

Ma v’era chi, come quel gruppetto di “non acculturati” di Via Goceano 6, aveva capito che per salvare una cultura, una Nazione non Stato ed il suo popolo fosse prioritario, anzi conditio sine qua non, quella di far appello alle energie più vitali di una Terra, ai suoi uomini liberi, ai poeti, al loro sentire primigenio, alla loro lingua che, come nel caso nostro, traeva dalla pratica orale la linfa prima del suo esistere.

Nacque così l’appello ai poeti, ai cultori e agli appassionati delle “patrie muse”, di penna e di vanga (de pinna e de tzappu), ai reggitori delle sorti nostrane, est a narrer a sos polìtigos, perché nella rivendicazione delle loro legittime aspettative non deflettessero dal riconoscersi “sardi”, e, come tali, depositari di una cultura autoctona, specifica, originale, degna di essere tutelata e valorizzata, nel quadro di un sistema politico unitario nazionale definito.

Al primo numero della Rivista, scritto per intero in limba, aderirono alcuni tra i poeti più conosciutidel tempo, da Pedru Casu a Salvatore Lay Deidda, da Bachis Asili ad Angelo Dettori (che diventerà ben presto l’animatore principale e il suo storico Direttore), a Rafel Sari, ad Antoni Cubeddu, in un crescendo di adesioni e consensi  che, numero dopo numero, finirà per comprendere la migliore intellettualità sarda.

All’invito di S’Ischiglia Giovanni Antonio Cossu, che certamente aveva subdorato quanto si stava organizzando a difesa dei valori di sardità, rispose subito con una poesia, in vernacolo sassarese, “Pa’ velthissi be’…” , ribadendo la sua adesione all’iniziativa nel mese successivo (febbraio 1949) con un’altra in puro logudorese dal titolo “Cane pirastraju”, in cui, usando come metafora la figura di un cane affamato, pare voglia simboleggiare chi con la prepotenza intende sfruttare i sottomessi.

La sua collaborazione proseguirà ininterrotta, fino al 1957, anno in cui la prima Ischiglia cesserà le sue pubblicazioni, con le seguenti poesie:

Anno1949 : Su Barone (marzo), A sos fulfurinos (aprile), Beranu (maggio), Sas abes (giugno), In chirca de s’amore meu (luglio), Proite canto (agosto), Canta chi ti passat (novembre)

Anno 1950 : Filumena (gennaio), Ite m’importat (febbraio), Coro de muzere (maggio), A gustu sardu (giugno-luglio), Rimpiantu (settembre), Carrabusu (dicembre). La Rivista riporta in questo mese inoltre una biografia del Cossu, firmata da Angelo Dettori.

Anno 1951 : Sa màscara de s’egoismu + Attunzu (gennaio), Sa morte de sa calandra (febbraio), S’orfanu a sos puzones (marzo), Sa formija e-i s’àinu (aprile), Sa ‘oghe de mamma mia (maggio), Ciocceddu (giugno), Su cuccu e-i sas virtudes suas (luglio; 1^ Premio nel Concorso di poesia organizzato da S’Ischiglia), In sa roda ‘e sa vida (agosto), Belosias + Suave filumena (settembre), A Zuseppe Raga+ A Santinu Macis + A Pietrinu Cau + Cuccu! cuccu! (Ottobre)

Anno 1952 : A Nanni Marchetti + Su ciondoleddu (gennaio), A Zuseppe Raga (febbraio), A sa morte + Ne mujas e ne bessis… (marzo), S’acchetta mutza (aprile), Oju ‘e Deu (maggio), Canta, ànima mia! (giugno), In bratzos de un’ura mala (luglio), Pover’àbbile! (settembre), Deponide unu fiore (novembre), A ti nd’ammentas? (dicembre)

Anno 1953 : S’ùltima cantone (gennaio), Invocatzione a su sole (febbraio), Ischirigosu (marzo), Lamentu de s’ingannada (aprile-maggio), Ingiustìscia canina (giugno), Males giobados (luglio), S’ebba castanza (agosto-settembre), S’aneddu de sa fide (ottobre), Ite chircas, mente mia? (dicembre)

Anno 1954 : Ave, Maria (gennaio), Augurale (febbraio), In caminu (marzo-aprile), E bravu, conca ‘e pistone! (maggio-giugno), Oe chi non tirat bentu (luglio), Poveros nois! (agosto-settembre), Su lamentu de s’àinu (ottobre-novembre), Notte mala (dicembre)

Anno 1955 : Aurora (gennaio-febbraio), Signora veridade (marzo-aprile), Su domadore famadu (maggio), Pon’a bier + Sennoresas (giugno), E camino… (luglio-agosto), Antoni Cubeddu (settembre-ottobre)

Anno 1956 : Notte ‘e Nadale (gennaio-febbraio), Pover’archibusu! (marzo), Deris e oe (aprile-maggio), Sas féminas de ‘idda (giugno), S’accolladura (luglio-agosto), In d’unu anfiteatru naturale… (2^ Premio al “Città di Ozieri”) (settembre-ottobre), Sas miadas de tia Maria (novembre-dicembre)

Anno 1957 : Desizos (gennaio-febbraio), S’ùltima foglina (marzo-aprile), Unu sónniu (luglio-agosto)

La sospensione delle pubblicazioni di S’Ischiglia, per quanto inopportuna e dolorosa, non frenò però l’ardore poetico del Cossu, il quale continuò a produrre testi di notevole pregio, migliorandosempre di più i suoi stilemi compositivi e la propria dignità letteraria, che, dopo il 1966, anno in cui si trasferì presso una figlia a Firenze, crebbe in intensità lirica,  in forza della lontananza dalla sua Terra d’origine. Di questa sua notevole produzione lasciò ai suoi figli, come preziosa eredità,  una sorta di Zibaldone, che ora, grazie all’intelligenza e all’affetto dei suoi concittadini di Thiesi, trova la giusta e doverosa collocazione nel panorama librario sardo a testimonianza di una presenza nella storia della poesia dialettale sarda dignitosa ed autorevole.

Antoninu (Tonino Mario) Rubattu

Sa vida

Juanne Antoni Cossu est naschidu in Thiesi su 29 martu  de su 1897, su babbu Bustianu, allevaiat e cummerciaiat caddos,  sa mama fit Juann’Anghela Malduca, patadesa.

Totoi, comente lu jamaian in bidda, at fatu solu duos annos de iscola, infatis restadu orfanu de babbu, sos tios che l’an leadu in sas campagnas de Otiéri pro l’aviare a su trabagliu: aiat solu ot’annos!

[…]

Pàgina listad'a lutu,

u' est iscritu: -ORFANIA-

tue m'atis s’angustia,

sos torojos, sos afannos

de sos mios birdes annos

e nde piango a sucutu!

[…]

Dae tando, apo cantadu:

-Bolados sun sos puzones

cun cuddas caras cantones

ch' allegran coro e sentidu,

e  est restadu su nidu

che foghileddu istudadu!-

Eterna in su coro restat

s’ umbra frita de s' orfania!

In ogni pàgina mia

b' est de cuss' umbra s' imprenta

fintz' in rejone cuntenta...

Sa pena si manifestat

                      […]

A seigh’annos est andadu a trabagliare in sa miniera de Canaglia finas a cando no est partidu po su serviziu militare, e in custos annos comintzat a iscrier sas primas cosas in poesia. Su 1917 est s’annu chi lu ’idet partire pro su fronte, mancari aiat comintzadu a cantare dae ora, in custos annos iscriet sas primas paginas de su “trabagliu”: gai jamat s’arte de iscriere, chi l’at acumpagnadu pro tota sa vida e chi si podet narrer no epat mai finidu. In sa gherra manna ‘enit feridu a una manu e  lu ricoveran in su Duomo de Milanu, inue bi fit s’ispidale militare, e po custu, cando fit betzu l’an dadu s’onorificenza de “cavaliere di Vitorio Veneto”.

Rientradu dae sa gherra torrat in Sardigna, a Portu Turre, inue connoschet sa muzere, Maria Salvatora Vaca, chi isposat in su 1918 cando ancora no aiat sa mazore edade, e at apidu tres fizos: Juann’Anghela, Sebustiana e Frantziscu. Andat a viver cun sa familia in Tatari, inue tribagliat finas a edade de pensione in su magasinu ‘e linnamene de “Naitana”. Viveit in Tatari finas a su 1962, cando si che trasferit in Aristanis inue istaiat su fizu Frantziscu.

S’unica fiza chi ancora s’agatat, Juann’Anghela, s’ammentat chi cando, minore, bidiat su babbu, a de note, iscriende in d’una banca, sa mama murrunzaiat  ca no cumprendiat custa passione “de pagu sensu”:

Dogni ’olta chi leo pinna in manu

sa memulosa de muzere mia,

comintzat de s’inferru unu bacanu

mort’e cuntrastu cun sa poesia.

Deo li naro:- Ma!… Gesummaria,

làssami unu mamentu conchisanu!-

Machè!…Issa non càgliat, ca s’arcanu

at sempr’ in coro, de sa ’elosia.

Iscultat a orija pastorina

apenas chi m’ intendet murmutende   

su ch’apo iscritu in s’ ìnnida foglina.

Deo, chi l’isco prit’est iscultende,   

canto apassionadu:- Cara Nina!-

E issa paret ferru mastighende…

                  […]

In su 1966 andat a viver a Firenze in domo ‘e una fiza: detzisione difitzile proite cheriat narrer lassare sos amigos poetes e pius de totu, lassare s’amada terra sua.

In tota sa vida, Juann’Antoni Cossu at sempre apidu una vena bundante e at iscritu poesias medas, muntenzende sempre bonu tratu cun amigos sardos, de sa Corsica e continentales. Ammentamus inoghe sas paraulas chi l’iscriet Salvator Ruju poi chi aiat legidu unu liberu de poesia suas: “nella storia della poesia dialetale sarda, il tuo posto è già preminente. La tua poesia è sempre valida; sei un vero poeta e un artista”

Juann’Antoni Cossu pro medas poetas thiesinos est istadu unu puntu ‘e riferimentu, guasi totu l’an legidu, cunsideradu e cummentadu cun carchi amigu, finas ca at un’ateru meritu: cun a issu sa poesia thiesina comintzat a cambiare istrada, siat a riguardu ‘e sos temas siat a riguardu  de sas peràulas chi impitat; in su cantare sou no ‘enit rapresentada una Sardigna avilida, suferente e isconsolada ma preferit de faeddare de una e a una Sardigna chi si podet riscatare, chi podet isperare e podet comintzare nessi a proare a cambiare sas cosas.

Sa poesia de J. Cossu est una poesia chi ‘enit pius dae s’intragna intima e abbratzat sos temas pius divescios e profundos: sas riflessiones subra sa vida, su tempus, sos afetos, su dolore, sa morte si poden agatare in guasi totu sas poesias suas e sun indagados dae sas pius diversas alas.

Cando det esser finida

custa pigad’afannosa?

In sa punta luminosa

serenamente ap’a ruer?

Cando su fritu piuer

lassat s’anima dechida?

Cun afannosu respiru

so pighende a pass’ istracu:

giut’in coddos unu sacu

de tintinnosos ammentos,

d’allegrias e lamentos

chi mi murmutan in giru.

[…]

Sempre, cust’anima mia

m’at dad’alas d’alabantzia,

sa bandela 'e s’isperantzia

a ‘ogni ‘entu at ispartu

sempr’ispinghendem’in altu

ue totu est poesia.

A bortas sa poesia de J. Cossu passat subra sas lacanas de s’essere umanu e si frimmat inue no b’at risposta, inue s’incontru cun su male e cun su dolore aunit s’anima de s’omine cun Deus.

At imbiadu poesias a cuncursos meda, e pius de una ‘orta est arrivadu de sos primos  comente in su premiu natzionale San Remo pro sa poesia dialetale de su 1946, comente in su premiu “Otièri”, chi in Sardigna est su pius importante, in su 1956, in su 1957 e 1958,  poi una “segnalazione” in su ’59, poite s’annu innanti aiat binchidu su primu premiu, in su 1964 un’atera “menzione” e in su 1968 bator annos innanti ’e morrer po su “Zibaldone” una “segnalazione d’onore”.

In tota sa vida sua J. Cossu at imbiadu poesias e iscritos a paritzos giornales sardos: in su 1926 iscriet pro divéscios meses in “La Sardegna scolastica”, dae su 1929 a su 1938 in “Sardegna poetica”, dae su ’48 a su ’49 iscriet in “Rinascita sarda”. Sas collaboratziones pius longas e chi sun duradas tota vida sun bistadas cussas cun “S’ischìglia”, “L’isola” e “La nuova Sardegna”.

Sas primmas poesias las aiait aunidas e pubblicadas in su 1927 cun “Amore e dolore” e sighin in su 1930 cun “Fiores sicos e sazos fioridos”, in su 1931 “Cartolinas a Nina”, in su 1937 “Cantonarzu amorosu”, invece non b’est sa data de imprenta po “Sos cantigos de s’anima”.

Est mortu in Firenze su 17 de austu de su 1972.   

Istevene Ruiu

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